La Reggina ha perso ancora. Sei sconfitte in dodici partite, classifica preoccupante, rendimento impalpabile, una squadra costruita per vincere e oggi smarrita, mentalmente fragile, incapace di riconoscersi. Fin qui, tutto chiaro. Ma la fotografia di ieri, al Granillo, racconta qualcosa di più della semplice crisi sportiva: per 90 minuti la curva non ha sostenuto la squadra, preferendo intonare un coro ossessivo e univoco — “Ballarino devi vendere, vattene” — rivolto al patron amaranto.
Una scena surreale. Una scena che merita una domanda scomoda:
davvero il problema della Reggina è Ballarino?
Una squadra che avrebbe dovuto dominare
Alla luce di quanto si è visto nelle prime dodici giornate, un dato emerge con chiarezza: la squadra è stata costruita male. La Reggina dell’anno scorso aveva chiuso il campionato al secondo posto, a un solo punto dal Siracusa poi promosso.
Quella rosa aveva una sua ossatura forte, un’identità precisa e un equilibrio complessivo che andava puntellato, non stravolto.
Invece, diversi giocatori chiave sono stati lasciati andare e sostituiti con profili che, prova del campo alla mano, si stanno rivelando più “figurine” che calciatori in grado di sostenere un percorso da squadra che punta alla promozione.
La responsabilità di questo è diretta: area tecnica e sportiva, chiamata a costruire un organico in linea con gli obiettivi dichiarati.
Ed è proprio qui che entra in gioco il concetto di entourage.
Un entourage rivelatosi inadeguato
Non si tratta di usare toni duri, ma di registrare ciò che i fatti stanno mostrando: chi ha affiancato Ballarino nelle scelte tecniche e gestionali non si è rivelato all’altezza del ruolo. Questa sì che è una grossa responsabilità di Ballarino e Minniti.
Le decisioni prese sul mercato, la scelta degli uomini, la valutazione dei profili, la gestione delle priorità: tutto lascia intendere una mancanza di competenza adeguata per un progetto che si voleva ambizioso.
Più che supportare il presidente, questo gruppo di lavoro sembra averlo trascinato verso scelte poco efficaci, contribuendo ad aprire un solco tra le intenzioni proclamate e i risultati realmente ottenuti.
La memoria corta di una piazza abituata alla Serie A
C’è un dato che nessuno vuole affrontare: Reggio Calabria è ancora prigioniera del ricordo dei 9 campionati di Serie A.
Una generazione cresciuta con Mozart, Cozza, Nakamura, Pirlo, con un Granillo pieno e una città che viveva di calcio.
Ma quel mondo non esiste più.
Non per Reggio, non per quasi nessuno al Sud.
La geografia del calcio italiano è cambiata. Drasticamente.
I poli di potere si sono spostati a Nord, e il sistema calcistico – in A, ma anche in B, C e D – è oggi dominato da fondi di investimento, proprietà straniere, gruppi industriali globali.
Il Sud non è più proprietario di sé stesso: il calcio di livello richiede capitali enormi
Qui occorre essere onesti: il calcio italiano non è più nelle mani degli imprenditori locali, almeno non quello di un certo livello.
Quando si parla di salire in Serie B o addirittura ambire alla Serie A, i costi diventano proibitivi: infrastrutture, ingaggi, staff, settore giovanile, standard federali, fideiussioni, investimenti sui diritti tv, logiche di mercato.
Non basta la buona volontà.
Non basta l’attaccamento alla maglia.
E soprattutto non basta un imprenditore locale, a meno che non abbia disponibilità economiche fuori dal comune.
A Reggio, come altrove, figure del genere semplicemente non ci sono.
E infatti:
- il Palermo è del City Group,
- il Catania è controllato da capitali italo-australiani,
- il Messina è passato a proprietà straniere dopo il fallimento.
Persino in C e in D si vedono budget che un normale imprenditore del territorio non può sostenere.
“La Reggina ai reggini”: uno slogan affascinante, ma vuoto
Negli ultimi mesi la tifoseria ha esposto striscioni chiari:
“La Reggina ai reggini.”
Richiesta romantica.
Richiesta identitaria.
Richiesta nobile.
Ma, oggi come oggi, richiesta irrealistica.
Perché?
Perché negli ultimi anni nessun imprenditore del territorio ha mostrato interesse reale per acquistare la Reggina.
La piazza chiede la cessione, ma non esiste un compratore credibile disposto a investire e farsi carico delle spese necessarie per riportare il club dove i tifosi vorrebbero rivederlo.
È giusto continuare a valorizzare l’identità territoriale, ma bisogna porsi una domanda concreta: quanti imprenditori locali sono davvero in grado di sostenere un progetto che mira alla Serie A, con i costi che questo comporta?
Ballarino: salvatore o ostacolo? Dipende dalla prospettiva
Possiamo criticare Ballarino per errori gestionali, scelte discutibili, comunicazione poco efficace e un progetto che finora non ha convinto.
Sarebbe miope non farlo.
Ma allo stesso tempo non si può ignorare un fatto storico:
Ballarino ha raccolto la Reggina dalle macerie lasciate da Gallo prima e Saladini poi.
Ha rimesso in piedi una società dissolta dal professionismo, quando nessuno si era fatto avanti.
È un dato di fatto.
Non un’opinione.
Il vero problema della Reggina è la mancanza di un’idea condivisa di futuro
La contestazione continua non aiuta la squadra.
La nostalgia del passato non aiuta la società.
L’assenza di un progetto cittadino non aiuta il futuro del club.
Il nodo è più profondo e deve rispondere ad una domanda: che tipo di calcio Reggio può permettersi? Perché la sensazione è che oggi si pretenda un calcio che molto realisticamente non possiamo più permetterci – né economicamente, né strutturalmente, né socialmente.
Finché la piazza rimarrà ancorata al mito del passato, ogni presidente sarà destinato a fallire.
In Serie D o in Serie A, non fa differenza.
Serve una riflessione adulta
La Reggina è in difficoltà, la squadra gioca male, la società deve dimostrare molto di più.
Ma puntare tutto su “Ballarino vattene” rischia di diventare un alibi collettivo.
I problemi sono più profondi:
- una città divisa,
- una tifoseria frustrata,
- una stampa spesso ostile,
- un tessuto imprenditoriale debole,
- un calcio italiano che non è più quello di vent’anni fa.
Ballarino può anche essere parte del problema ma è anche, oggi, parte dell’unica possibile soluzione.






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