Maurizio Raggi non è un ex qualunque. Per i tifosi amaranto il suo nome evoca immagini precise: lo stacco a Monopoli, la corsa sotto il settore ospiti, la stagione della promozione, la Banda Scala.
Lo raggiungiamo al telefono per una lunga chiacchierata, lucida e appassionata, che attraversa quarant’anni di ricordi amaranto e che affronta anche le vicende attuali della Reggina.

Maurizio, partiamo dall’inizio: che ricordo hai di Reggio Calabria e di ciò che ha rappresentato per te la maglia amaranto?
“Il primo ricordo è un’immagine che non potrò mai scordare. Arrivai a Reggio il primo anno di C2 con mister Caramanno. Dopo chilometri e chilometri in macchina, mi si aprì davanti lo Stretto di Messina: uno spettacolo. Una delle cartoline più belle della mia vita. Rimasi così colpito che decisi di andare a vivere a Cannitello, proprio affacciato sulla Sicilia.
È stata una delle zone più belle dove abbia mai vissuto. E non parlo solo del paesaggio: parlo dell’ambiente, della gente, di come si viveva il calcio. A Reggio non sei un semplice calciatore: sei parte di una comunità. Per me è stato immediatamente un posto speciale.”
Tornando a quegli anni, c’è un episodio che i tifosi associano immediatamente al tuo nome: il gol di Monopoli. Che ricordo hai di quella giornata?
“Monopoli-Reggina è un momento che resterà per sempre dentro di me. Stavamo perdendo 1-0, la partita sembrava segnata, era quasi finita. A un certo punto vedo Mariotto partire sulla fascia destra: gli vado dietro con fiducia, faccio 30-40 metri in progressione e arrivo al momento giusto per incornare quel cross.
La palla entra, era l’89’. E io corro sotto la curva, dove c’erano i nostri tifosi. Un’esplosione di gioia.
C’è una curiosità: il portiere del Monopoli era De Toffol, zio di Marco Carrara, mio compagno. Quel gol gli tolse una lunghissima imbattibilità nazionale. Pensa alla mia gioia… e alla sua disperazione! Dopo anni ancora scherziamo su quella cosa.”
Quella stagione poi portò alla promozione in Serie B allo spareggio di Perugia. Che atmosfera ricordi?
“Semplicemente unica. A Perugia c’era tutta Reggio Calabria. Sui treni, in macchina, in ogni mezzo possibile: migliaia di persone.
Noi giocatori arrivammo in aereo a Roma e poi ci spostammo verso Perugia in pullman. Ricordo ancora il Raccordo anulare di Roma pieno di auto targate RC dirette verso il Curi. Entrammo in campo e trovammo uno stadio che sembrava il Granillo: una marea amaranto.
Quella fu una soddisfazione enorme, riportare la Reggina in B dopo tanti anni. È un ricordo che porto nel cuore, perché rappresenta la particolarità della gente di Reggio: la fede amaranto, quella vera, quella che non si spegne. Pensa quello stesso giorno a Reggio c’era la visita del Papa e (ride), con tutto il rispetto per il Santo Padre, c’era più gente a vedere noi a Perugia che non a Reggio per il Papa”.

E poi c’è anche il gol che segnasti a Padova ……
“Eh già, grazie a quel gol abbiamo conquistato la possibilità di giocarci lo spareggio con la Cremonese. Senza contare che per lunga parte di quella partita, grazie ai risultati concomitanti dagli altri campi, eravamo virtualmente in Serie A”.
Ti senti ancora con i tuoi compagni della famosa “Banda Scala”?
“Certo che sì, ci sentiamo ancora! Abbiamo una chat, ci raccontiamo tutto. È un legame che non si è mai spezzato.
Parliamo molto anche della Reggina di oggi. Ti dico la verità: un periodo ci era passata un po’ la voglia, perché certe situazioni scoraggiano. Ma ultimamente stiamo rivedendo qualcosa, un piccolo segnale di ripresa. E io sono convinto che il campionato attuale sia apertissimo: non c’è una squadra schiacciasassi. Se la Reggina ci crede, può rientrare in corsa.”

Tu parli spesso di “valori” e di “uomini veri”. Cosa serve oggi, secondo te, per rendere la Reggina stabile e competitiva?
“Serve tornare all’essenza. Quest’anno qualcosa non è andato per il verso giusto, troppi giocatori sono arrivati senza motivazioni. Non faccio nomi ma io alcuni non li avrei mai presi.
Il calcio non è un album di figurine: quello lo teniamo per i bambini. In campo servono uomini. Persone che vengono a Reggio per sudare la maglia, non per farsi il mese di vacanza pagato.
A mio avviso ci vogliono profili motivati, che abbiano orgoglio, che capiscano cosa significa indossare l’amaranto. Poi, certo, un paio di rinforzi servirebbero: un attaccante, magari un altro giocatore di spessore. Ma devono venire con entusiasmo, non perché li porta un procuratore.”
A proposito di procuratori: hai fatto un riferimento critico alle dinamiche attuali. Da cosa nasce questa riflessione?
“Nasce dall’osservazione. Oggi tanti ragazzi si lasciano condizionare troppo dai procuratori, dalle chiacchiere, dalle promesse.
Noi eravamo gente più libera, più responsabile. Avevamo valori diversi. Non è nostalgia, è un dato di fatto.
A Reggio sono rimasto tre anni, ho avuto tante offerte, ma spesso ho scelto di restare perché lì stavo bene, perché era la mia casa calcistica. Se fosse stato per me, avrei chiuso la carriera lì. Alla fine sono andato via solo perché era la scelta migliore per la società. Questo per dirti che quando parlo di appartenenza lo faccio con cognizione di causa.”

Tu parli spesso di Reggio come “casa”. Cosa significa per te oggi questa parola?
“Significa esattamente quello che sembra: casa.
Quando torno a Reggio, l’affetto della gente è qualcosa di unico. Non ho pace un attimo: tutti vogliono salutarmi, abbracciarmi, raccontarmi ricordi. È un calore che non ho trovato da nessun’altra parte.
Io non ho tatuaggi, ma la Reggina ce l’ho stampata nel cuore. E questo non lo dico per retorica, lo dico perché è così.”
Per chiudere: la Reggina di oggi può ritrovare stabilità e ambizioni?
“Sì, se torna a mettere al centro gli uomini giusti.
Servono motivazione, senso di appartenenza, lavoro quotidiano. Servono giocatori che sudano la maglia.
E poi serve la tifoseria, quella che ha sempre fatto la differenza. La Reggina può risalire, ma deve ritrovare la sua identità. Una volta che ritrovi quella, tutto il resto viene da sé.”






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