Sette giornate, otto punti e troppi interrogativi. La squadra di Trocini fatica a trovare identità e continuità: le cifre raccontano una realtà che va oltre la classifica.
Sette giornate sono poche per emettere verdetti, ma abbastanza per capire che la Reggina non è ancora la squadra che Reggio Calabria sognava di rivedere protagonista.
I numeri lo dicono con freddezza: otto punti conquistati, due vittorie, due pareggi, tre sconfitte.
Un cammino fatto di pochi alti e tanti bassi, ampi momenti di blackout, tanta discontinuità con il rischio di arrivare alla rassegnazione.
La squadra di Bruno Trocini, erede di un progetto che da due stagioni cerca la via del ritorno tra i professionisti, vive un momento di evidente transizione.
Non basta il blasone, non basta la maglia amaranto: la Serie D è una palude da cui si esce solo con un’identità chiara, e quella la Reggina non l’ha ancora trovata.
Numeri che raccontano una verità scomoda
Le statistiche restituiscono un quadro eloquente.
Otto punti in sette gare significano 1,14 punti a partita, troppo poco per chi punta in alto.
La Reggina ha segnato 7 gol e ne ha subiti altrettanti: una differenza reti neutra, che fotografa bene l’equilibrio precario tra potenziale e concretezza.
In casa il rendimento è poco sotto la sufficienza (sei punti conquistati, cinque gol fatti, tre subiti), ma fuori dal Granillo la squadra si smarrisce: solo due punti, appena due gol segnati e quattro subiti.
Tradotto: la Reggina lontano da Reggio non riesce a vincere, e soprattutto non riesce a essere se stessa.
Un attacco senza un vero leader
Sette reti, sette marcatori diversi.
È un dato curioso e allo stesso tempo preoccupante. Nessuno ha preso il testimone del bomber, nessuno ha ancora dimostrato quella fame da trascinatore che in Serie D fa la differenza.
Da Girasole a Ferraro, da Mungo a Barillà, da Edera a Di Grazia, fino al giovane Fomete: tutti hanno messo la firma una volta sul tabellino, ma mai due.
La cooperativa del gol può essere un segnale di coralità, ma più spesso è il sintomo di una squadra che cerca ancora un punto di riferimento.
Eppure la qualità individuale non manca.
Barillà, con la sua esperienza e la freddezza dal dischetto, è un lusso per la categoria. Edera e Di Grazia hanno lampi di classe, Mungo è generoso e dinamico, ma la sensazione è che manchi ancora una guida capace di trascinare il gruppo nei momenti decisivi.
La Reggina crea, ma non concretizza. Gioca, ma non incide.
E quando serve il colpo di orgoglio, la squadra si spegne.
Una difesa che balla, un centrocampo che si allunga
Sette gol subiti in sette partite non sono un disastro, ma per chi punta alla vetta pesano.
Trocini ha cercato soluzioni, alternando moduli e interpreti, ma la coperta è rimasta corta.
Il centrocampo fatica a fare filtro e la squadra si allunga, lasciando troppo campo agli avversari.
I gol presi su palla inattiva e in contropiede non sono coincidenze, ma segnali di fragilità strutturale.
Lagonigro, tra i pali, ha evitato guai peggiori, ma serve una maggiore compattezza collettiva.
La fase difensiva non è solo questione di uomini, è un fatto di mentalità: serve più cattiveria, più concentrazione, più spirito di sacrificio.
Un campionato equilibrato, ma non eterno
Il girone I è competitivo come sempre: Savoia, Igea Virtus, Vibonese, Sambiase — ogni domenica è una battaglia.
Ma proprio per questo serve costanza. Non bastano le prestazioni episodiche, servono serie di risultati utili per costruire fiducia e identità.
Oggi la Reggina è nel gruppo, ma non al centro della lotta.
Il potenziale per risalire c’è, ma il tempo stringe.
Ogni passo falso allontana un obiettivo che la piazza considera non solo desiderabile, ma doveroso.
Oltre i numeri: serve una scossa
I numeri aiutano a capire, ma non raccontano tutto.
Dietro questa partenza incerta c’è una squadra che sembra aver smarrito la propria certezza interiore.
Troppi esperimenti, poche certezze, e una sensazione di instabilità che si riflette sul campo.
La Reggina deve ritrovare se stessa.
Non è solo questione di punti, ma di orgoglio, di fame, di identità.
Il blasone non basta più — serve l’anima.
Quella che Reggio ha nel sangue e che il campo, oggi, aspetta di rivedere.






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