Mi vien da piangere pensando a quella giornata

Tifo Reggina da quando mio papà – Don Natalino Condemi – mi portò per la prima volta “o campu”. Avevo solo tre anni e in sessant’anni ne ho viste di ogni che mi hanno permesso di gioire, soffrire, esultare, abbattermi ma sempre con smisurato orgoglio e sconfinata fede. “A Reggina” racchiude tutto ma tutto veramente. Essa non è una semplice squadra di calcio e non è una bandiera da sventolare o una sciarpa da mettere al collo: la Reggina “è e basta” e racchiude in sé vocaboli come appartenenza, identità e regginità. Potrei seguitare all’infinito ma credo abbia già raggiunto il mio scopo nel descrivere l’amore viscerale verso una squadra che mi fa battere il cuore fino a scoppiarmi in petto, che non mi fa dormire la notte prima della partita (finanche amichevole), che mi fa stare male quando perde contro chiunque. La Reggina è quel cordone ombelicale che mi tiene in vita, che mi permette di respirare, che mi consente di nutrirmi. Vedete, io ho vissuto a Reggio soltanto durante l’età adolescenziale – dai 13 ai 19 anni – per poi riempire di sogni e di speranze quella stessa valigia che usò mio padre qualche tempo prima. Nella città della Fata Morgana sono stato negli anni formativi, quelli della spensieratezza, dell’imprudenza ma anche della beata gioventù e della baldanza che non mi ha mai abbandonato neppure dopo, quando Milano diventò casa mia offrendomi una vita tutto sommato abbiente e pur sempre condotta con fierezza e orgoglio. Lo stesso vanto e lo stesso amor proprio nel dire “sono di Reggio Calabria” a chi mi chiedesse da dove venissi. L’amore verso la mia città non s’è mai sopito così come non s’è mai spento il fuoco amaranto dentro me. E devo ringraziare mio padre – Don Natalino Condemi – che mi ha trasmesso la stessa devozione, lo stesso ardore e lo stesso trasporto verso quella bandiera ch’è mia e solo mia perché è e rimane la quint’essenza della mia esistenza, un qualcosa che mi cinge e che continua ad aggrovigliarmi nonostante tutto e nonostante tutti. Oggi è il 30 aprile. Una data speciale e bellissima dove Mazzarri e i suoi ragazzi ci regalarono una delle più belle pagine della vasta storia amaranto: il 3 a 0 col quale condannarono alla retrocessione niente popò di meno che i cuginastri del Messina. Sono passati 18 lunghi anni da quell’indelebile giornata che vogliamo ancor oggi festeggiare (a maggior ragione) perché la squadra del nostro cuore procede a fari spenti nel sentiero sconnesso della Serie D, con un futuro incerto e probabilmente da riscrivere in modo assoluto. Mi vien da piangere “a bbuci forti” come si dice a Reggio. Mi vien da piangere ripensando a quello che fu, ai lustrini ed a paillettes che scintillavano, ai tempi d’oro, al Granillo come fenomeno dilagante e costantemente attenzionato dai mass-media di allora, alle pacche sulle spalle, ai commenti lusinghieri e al tantissimo indotto che si era creato intorno a quel prodigio chiamato Reggina. Mi vien da piangere pensando che da settembre a questa parte abbiamo dovuto giocare con San Luca, Locri, Sancataldese e Canicattì (con tutto il rispetto di queste realtà) e che per “sognare e sperare” bisogna assolutamente battere prima la Vibonese e poi il Siracusa quando molti dei loro tifosi erano presenti al Granillo a lustrarsi gli occhi con gente come Totti, Materazzi, Baggio, Ševčenko, Perrotta, Cannavaro e poi Cozza, Bianchi e Amoruso. E per parafrasare una canzone di Alfredo Auspici: “non pensava a tutto stu dramma: Saladini e Cardona…”







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