“Per un padre che ha sognato…per un figlio appena nato qui…” recita l’inno di una squadra di calcio, riconosciuto dalla critica uno dei più belli d’Italia. L’inno è il nostro e lo canta il musicista Raffaello
La parola padre deriva da una radice latina che sta a indicare il “pascere”, “nutrire”, “proteggere”. Essere padre è un dono di Dio, un regalo della vita. Si può solo intuire questo da “figli”, si matura questa verità e si custodisce come un tesoro quando si diventa padri. In questa giornata, in cui tutti ricordano il proprio padre, o il proprio essere padri, io ricordo il mio di padre ed il mio essere padre, con questa foto che è sbalzata ai miei occhi. E’ il 19 Marzo del 2000, proprio giorno della festa del papà e la Reggina gioca a Roma, per la prima volta nella sua storia, contro la Roma. Raggiungo mio padre all’Olimpico dalla città in cui vivo, lui viene da Reggio, siamo oltre diecimila, ma quello che importa per me è abbracciare mio padre. Questo scatto è stato fatto proprio dopo l’incredibile, impensabile due zero per noi e immortala me, con le mani nei capelli (li ho avuti anch’io…) pervaso di incredulità e lui nella sua classica condizione caratteriale: immobile nella sua naturale imperturbabilità di spirito, sornione in mezzo al delirio dei diecimila intorno, fermo, mentre un’umanità circostante, qualche attimo prima, rotolava nel settore come una slavina. E proprio in quel momento dello scatto, in quel 19 Marzo con mio padre accanto, ad un certo punto guardando il tabellone dell’Olimpico alla mia sinistra, vedo uscire come saette tutte le immagini di me piccolo con lui allo stadio, mano per la mano, anno dopo anno, categoria dopo categoria, dalla serie C alla serie A, dai campi polverosi all’Olimpico, ad abbracciarci. Era mai possibile quello che stava accadendo? Era tutto vero, era il giorno di mio padre, era il nostro abbraccio, era la nostra squadra che partendo da un sogno impossibile, regalava un dono a tutti i padri intorno a me che avevano la sciarpa dello stesso colore. I vessilli dei padri, in genere, hanno tutti lo stesso colore, indipendentemente dalla loro squadra. E i loro figli portano addosso, anche idealmente e cucite nella tempra, quelle rifiniture fatte a mano con amore, composte di quello stesso tessuto pesante che la nonna realizzava ai nipoti per l’inverno. Era la Reggina di quei giorni, un’eterogenea composizione generazionale di giovani e meno giovani, di padri e figli che in campo giocavano non solo per i loro padri sugli spalti orgogliosi di vederli lì, ma anche e soprattutto per i loro figli; una macchina dal combustile pesante il cui motore aveva il nome di cilindri di un livello raro (Pirlo, Baronio, Taibi, Possanzini, Cozza, Kallon, etc). Non ho tantissime foto con mio padre allo stadio, ma questa, scattata in una giornata in cui la figura del padre diventava osmosi con una fede pagana, per me è sangue che circola. Riguardo adesso i miei figli e nel rito del tempio destinato alla fede domenicale, continuano a venire con me allo stadio, evocando l’infinito senso di un’identità e tradizione che ci riconduce all’originaria definizione di πατήρ, quale protezione amorevole, coniata dai padri Greci. Non è altro che lo slittamento semantico di quanto mi disse un giorno mio suocero: ”Fra un padre e un figlio l’amore non è orizzontale, ma naturalmente verticale. E’ un amore che riflette una parabola discendente, dall’alto verso il basso. L’amore scende, non sale mai. Scende, perché l’amore che un padre prova per il figlio non potrà mai essere commisurato alla stessa intensità dell’amore di un figlio verso il padre. Me lo diceva mio padre e adesso io lo dico a te.” Perché un padre non smette mai di essere padre, in vita o in morte che sia e un figlio non smette mai di essere tale. E si può essere entrambe le cose, guardando la vita da due emisferi di anima diverse, ma che ti riconducono poi alla stessa latitudine di uno slogan in uso nelle curve e che caratterizza l’antropologia del calcio popolare della gente (“di padre in figlio”), che forse non è un semplice slogan, ma una condizione umana. Perché certe storie ci insegnano, in fondo, che anche all’interno di uno stadio di calcio la vita rimanda ad una verità indiscussa, figlia di altre logiche legate tra loro. Quella che i vessilli dei padri non hanno tempo e l’amore di un padre è un vessillo senza tempo.
di Domenico Romeo






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