Ci sono storie che rimangono custodite nell’alveo di un cassetto che, ad un certo punto della vita, rimane chiuso a chiave. Almeno apparentemente. Ci sono eroi silenziosi che vivono il loro sogno perpetuando l’attimo immortale

di Domenico Romeo per albamaranto.org
E’ la storia di Quintino Falcomatà, ex portiere della Reggina degli anni sessanta. Ed è una storia di grandezza, silenzio ed umiltà quella che si sta per raccontare. Una storia che è un ponte fra l’Italia e il Sudamerica.
Gli anni sessanta sono iniziati da poco, anni che saranno ricordati come gli anni della post ricostruzione, di profondi mutamenti culturali nella società dei costumi, non soltanto nel panorama nazionale, ma anche e soprattutto nel panorama internazionale (che troveranno il loro picco nella famosa rivoluzione del ’68).
La musica diviene sempre più fenomeno aggregativo attraverso la nascita di molti gruppi di tendenza ( i The Beatles divengono un’icona di riferimento trasnazionale), la moda subisce la “variante hippy” ed in Italia “La dolce vita di Fellini” diviene apripista di un paradigma in cui la società di massa scopre il fascino della Fiat 500 ed il brivido dell’Alfa Romeo.
All’interno di una Nazione il cui Pil cresce a dismisura ed il boom economico è in salita, il calcio degli anni sessanta diventa sempre più fenomeno aggregativo di massa, trade union fra popoli e territori. Ognuno con i propri eroi.
Omar Sivori per la Juve, Gianni Rivera per il Milan, Sandro Mazzola per l’Inter, cominciano a diventare leggende per schiere di giovani che, grazie a mamma Rai, ne applaudono le gesta.
Seguiranno le coppe dei campioni conquistate dalle due compagni milanesi a metà anni sessanta, ma è la Fiorentina la prima squadra Italiana a vincere un titolo europeo (la coppa della coppe) nel 1961.
Milano costruisce la fama di scala del calcio europeo, mentre Torino (sponda bianconera) conserva il primato di maggiori titoli nazionali (sulla sponda granata, il ciclo del “Grande Torino” degli anni quaranta, terminato tragicamente sulla basilica di Superga, riecheggia ancora come un’icona leggendaria che si tramanda in valori, intensità emotive ed istinti di rinascita contro la morte). Da Roma in giù, per il momento, un solo scudetto, quello dell’A.S. Roma, conquistato nella stagione 1941/1942. E’ lo specchio economico e sociale delle “due Italie”, un’onta persistente dal 1861, cento anni esatti.
Ma a Reggio Calabria, grazie a Dio, negli anni sessanta, esiste la Reggina già dal 1914. La mamma sportiva di tutti noi, la mamma pagana di un popolo che, subordinatamente alla madre celeste patrona della città, ha intessuto storie, affetti, creato legami profondi, generato senso di identificazione e di appartenenza ad una maglia il cui richiamo alla terra rimane indelebile. Una terra, un popolo, una maglia, un colore. E’ tempo, purtroppo, di emigrazione verso i poli industriali più forti e i figli di una terra emarginata si disperdono nello “Stivale”. Una sorta di deportazione non dichiarata. Chiunque emigra porterà un pezzo di colore amaranto della propria terra, o addirittura un drappo, una bandiera, un gagliardetto, qualsiasi cosa possa accostare Reggio alla Reggina e viceversa.
E il destino vuole che proprio Omar Sivori, figlio del Dio pallone del tempo, avrebbe “trasmigrato” le mura del vecchio Comunale di Torino e le platee di importanti palcoscenici internazionali, per giungere a Reggio Calabria.
E’ giovedì 23 Febbraio del 1961 e al vecchio Comunale di Reggio Calabria, alle ore 14,30, si gioca un’amichevole di lusso: la Reggina, che milita in Serie C, ospita la Juventus che, per la prima volta, si affaccia sullo Stretto (tornerà nel 1964 sullo Stretto, sponda Messina, perdendo uno a zero in un incontro valevole per il campionato di Serie A).
La Reggina è la Fiat 500 del tempo, brillante, sportiva, volenterosa e la Juve è l’Alfa Romeo del tempo, con un motore potentissimo, veloce e di classe.
Il primo tempo si chiude senza storia: la differenza fra le compagini è chiara, netta, marcata, ed è proprio il gioiellino argentino del tempo a siglare una tripletta in 45°. Al 18°, al 36° e allo scadere della prima frazione di gioco su rigore, Omar Sivori sembra abbia scelto di giocare da solo contro l’undici amaranto incolpevole, nonché contro il portiere amaranto Sergio Morselli che ricorderà il volto dell’argentino come un incubo a vita.
Ma è a inizio secondo tempo che il Dio del calcio interviene e come ce lo spiega la poetessa brasiliana Martha Medeiros , illumina di colpo gli uomini a “rovesciare il tavolo rischiando l’incertezza per la certezza per inseguire il sogno”, spalancando venti che fino ad un attimo prima soffiavano da altra parte.
L’allenatore della Reggina, Arnaldo Sentimenti, decide di cambiare: fuori il portiere Morselli trafitto già tre volte e dentro un ragazzino giovane, esordiente, debuttante.
“Entra tu adesso. Vai”. E’ la volta di Quintino Falcomatà, reggino puro sangue. E’ un ragazzo giovane di appena vent’anni, è un classe 1941 che dovrà difendere i pali con l’arduo compito di evitare una solenne, annunciata umiliazione dopo il tre a zero del primo tempo.
Un sogno per quel ragazzino in porta trovarsi di fronte Sivori, Boniperti, il Gallese John Charles, mostri sacri di un’epoca irrepetibile. Trovarsi davanti chi, fino al momento, davanti a mamma Rai sembravano idoli irraggiungibili ma che, improvvisamente, perdono le movenze divine per diventare uomini di fronte ad altri uomini.
Ma è proprio il Dio del calcio che vuole illuminare la storia del ragazzino Quintino, appena entrato in porta.
E’ inizio secondo tempo e la Juventus beneficia di un altro rigore ed è sempre Sivori a presentarsi davanti al dischetto. Di fronte e a lui il ragazzino all’esordio.
Quintino guarda negli occhi Omar e Omar guarda negli occhi Quintino. Si guardano, si studiano, si affrontano con sguardi uguali e differenti, i loro occhi riflettono universi diversi. Da una parte lo sguardo di Sivori, sicuro del proprio talento, dall’altra parte lo sguardo di Quintino, figlio della forza dell’esuberanza e dell’incoscienza giovanile.
L’arbitro messinese Parisi fischia, Sivori tira forte ed angolato ma è qui che la storia si ferma e traccia il suo solco: Quintino Falcomatà, portiere ragazzino all’esordio, para il rigore. Un’analogia che, nella storia della Reggina, si ripeterà molti anni dopo nel 1999 quando un altro ragazzino all’esordio in Serie A nell’olimpo del calcio, Emanuele Belardi, parerà al 90° un rigore decisivo a Andrij Mykolajovyč Ševčenko in un Milan-Reggina che resterà nella storia (2-2 risultato finale).
Ma in quel pomeriggio del 23 Febbraio 1961, il Dio del calcio si è già accordato con la sorte ed ha già assegnato al suo eroe giovane la gloria di un momento immortale ed anch’esso irripetibile nella vita. Questo perché, a volte, Davide riesce a battere Golia, con la calma, il silenzio, l’umiltà di chi proviene dai campi di terra e sabbia. E’ lì che spesso interviene la sorte e premia il coraggio degli ultimi. La Reggina si galvanizza, realizza altri due gol (Sergio Sospetti al 65° e Romolo Lavalle al minuto 86°), mette alle corde la Juve con la forza di chi non ha niente da perdere, ma non riesce a recuperare l’incontro nonostante un pesante assalto. Si perde 3-2, con onore. Si perde da Reggina, come si vince da Reggina. E si perde da Reggina fra gli applausi dell’avversario blasonato e del pubblico accorso allo stadio. Saluti, abbracci, strette di mano.
Tutto è compiuto. Anzi, no. Forse. Perché il Dio del calcio vuole rendere l’ultimo atto di un romanzo giovanile e autentico, a due esistenze diverse che si collimano in un’unica umanità.
“Portiere!“
“Portiere!“
Quintino continua a camminare verso gli spogliatoi. Non si gira. Non sente. Non immagina. Il portiere della Juventus Giuseppe Vavassori si gira, si guarda intorno e poi prosegue il suo percorso verso gli spogliatoi.
Ma ancora: “Ragazzo!”.
E’ l’urlo forte che squarcia il pomeriggio autunnale del vecchio stadio di Reggio e Quintino si ferma. Si gira e Sivori è a un passo di lui. E’ lui che lo chiama. Si avvicina, gli sorride, il giovane amaranto è incredulo. Sono a un passo, il Dio del calcio gli offre uno dei suoi profeti pagani in carne ed ossa, gli sguardi brillano e sono quasi vicinissimi, non più a 11 metri di distanza o a 11 metri da un sogno che diventa destino certo e implacabile.
“Me la dai la maglia? Sei bravo, portiere, complimenti”.
Omar chiede la maglia a Quintino. Si complimenta per il rigore parato. Non ha mai sbagliato un rigore da quando è in Italia. Tranne oggi. Sembra un sogno, ma no, non è un sogno, è l’apolegetica benedizione del famoso Dio del calcio che si transusta in umanità terrena in un pomeriggio di autunno mediterraneo, dove gli eroi si raccontano, le vite si schiudono e si cristallizzano in una reciproca foto ricordo. La leggenda ovattata dallo schermo diventa uomo in carne ed ossa e il figlio giovane di una terra umile viene rivestito di leggenda dall’eroe venuto dall’Argentina. Il sogno è inseguito, il cielo è scoperchiato e la vita si presenta a grandi dosi. L’ultima lirica dei poeti della rivoluzione sudamericana è chiusa da Omar Sivori, fra realismo magico di Marquez, alchimia mirabolante di Sepulveda, memorie di fuoco di Allende, spiritualismo carnale di Coelho, evocazione alla rivoluzione di Neruda, anticipando le narrazioni di Galeano fra gli splendori e le miserie del calcio.
E il tempo, secondo i cicli Vichiani, si ripropone secondo i suoi corsi e molto spesso benedice i suoi frutti secondo singolari ripetizioni temporali. Reggina e Juventus, difatti, si torneranno ad incontrare in un altro 23 Febbraio, ma di sera, molti anni dopo, nell’anno 2008, in una gara valevole per il campionato di Serie A. Finirà 2-1 per la Reggina stavolta, con una vittoria finale, manco a dirlo, siglata al 90° grazie ad un rigore realizzato da Nicola Amoruso. Il karma del dischetto. Undici metri, la distanza siderale dell’uomo dal proprio istinto di sopravvivenza. E’ sempre il concetto di rigore che ritorna. Sono sempre gli sguardi di sfida fra due esseri umani che si misurano dalla medesima distanza. Gli attori cambiano, ma la finalità è sempre la stessa: un uomo deve neutralizzare una pallottola lanciata dal suo avversario, singolo soldato scelto da un plotone d’esecuzione. Il calcio come parodia del Dio della polvere, che ascende gli umili e dissemina gioventù. Un destino che si riproporrà a vento contrario ed ostinato, ma nella Juve quella sera in porta non ci sarà il giovane Quintino Falcomatà, ma quell’ Emanuele Belardi che nel 1999 parò il rigore a Ševčenko vestendo la maglia amaranto. Ed è sempre il portiere il protagonista, sia nel 1961 con Quintino, che nel 2008 con Emanuele, nello stesso tempio pagano, di uno psicodramma che mischia psicologia dell’identità e sociologia di massa, che smuove l’indole a comprendere una verità ingestibile ad altri: il portiere, così come l’arbitro e come un giudice di un qualsiasi tribunale, è un uomo solo.
Quintino Falcomatà, farà poi la sua normale carriera, ma dopo avere appeso le scarpe al chiodo dopo anni di calcio giocato, non resterà nell’ambiente. Lontano dai campi, l’eroe prescelto e silenzioso di quel giorno continuerà la propria vita lontano dai radar dello sport, diventerà ferroviere, vivrà con il consueto decoro dell’umiltà costruendo una famiglia che assorbirà quegli insradicabili valori immortali improntati sulla cultura del lavoro e dell’onestà. Ma d’altronde, nel ventre molle della città di Reggio Calabria, l’inconscio collettivo somatizza l’idea della massima che in fondo “a Reggina è comu a famigghia…”.
Il giovane portiere amaranto, l’eroe imbastito da Omar Sivori per volontà della sorte, ci ha recentemente lasciati all’età di 82 anni. Un pezzo di storia amaranto che ci lasciamo alle spalle, ma anche un pezzo di storia della nostra città a cui non possiamo che dire “grazie”. Alla famiglia la nostra vicinanza e il nostro ricordo.
“Bienvenido, muchacho. Vuelve al gol, quiero quitarte el penalti…” (“Benvenuto, ragazzo. rimettiti in porta, voglio ritirarti il rigore…”
“ …. E io voglio continuare a giocare quella partita. E' finita troppo presto dopo avere parato il rigore...”
Ce lo immaginiamo così l’incontro in cielo fra il bomber ed il portiere.
Chissà quanti poeti della rivoluzione, cari e vicini a Dio, si cimenteranno adesso in un’infinita narrazione di cieli capovolti, tavoli sobbalzati, davanti a quelle anime pronte a scorrazzare libere a giocarsi il terzo tempo della partita.
Lo spirito della “remuntada” è servito. Le partite non finiscono mai. O in cielo o in terra, c’é sempre una nuova stagione che comincia: sono i poeti del calcio a dirlo per bocca di Nick Hornby. Il calcio, dopo la morte, come parodia di rivoluzioni terrene.
Storie di anime di calcio, dopo la vita, che diventano parodia di eternità.

Domenico Romeo
(Le foto dell’incontro, scattate dal fotografo Giuseppe Diara di Reggio Calabria, sono state gentilmente donate dal Sig. Salvatore Bordonaro che si ringrazia)






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