Da Aschenez a Lillo Foti, viaggio immaginario in una città ferita.
di Giuseppe “Fossa” Criaco
Il poeta greco Omero scriveva “di non avere abbastanza lingua (o bocca) per poter raccontare l’immensa distesa di navi dalle vele nere (le navi achee, greche nds) da cui si apprestavano a sbarcare migliaia e migliaia di uomini sulle spiagge di Ilio (di Troia). (evidentemente la cecità arrivo successivamente)
Analogamente, ed ecco spiegato il perché di questo mio prolungato silenzio, anche io non ho abbastanza penna (oppure inchiostro) per poter raccontare la mia delusione e la mia amarezza per l’epilogo della stagione amaranto. Un epilogo doloroso per la città e per la stessa squadra, le cui speranze di vedere (e di giocare) ancora la serie B al Granillo sono ormai appese ad un filo sottilissimo. Ma sicuramente è di gran lunga più “doloroso”, per me, assistere al liquefarsi dei due massimi esponenti societari, oggi seppelliti dietro un silenzio carico di dubbi, e di nodi che ancora non sono stati sciolti. Quanto meno agli occhi della tifoseria.
In questo mio pezzo, ho provato idealmente a scendere per strada, una qualsiasi della nostra straordinaria, ma al tempo steso sventurata città, ed immedesimarmi in uno dei tanti cittadini e tifosi.
Ed allora penso che lo scorso anno, con quella sciarpa al collo, Felice Saladini ha giocato con i sogni e le speranze di una comunità: uomini e donne per cui la Reggina non è mai stata solo una squadra di calcio. Ma un pezzo della propria storia, e della propria stessa esistenza, se non della propria appartenenza a quel fenomeno collettivo, che per ben nove lunghissimi anni ha animato la città, le sue strade, i suoi bar, i suoi negozi e persino le sue famiglie, alla viglia di ogni partita al Granillo. Che nella narrazione sportiva nazionale era diventato il “mitico” Granillo.

Li attraverso tutti i quartieri di questa città, da Santa Caterina (“Granducato” lo avevano ribattezzato, in ossequio a quella visione romantica di rivoluzione che aveva animato gli animi di molti qui a Reggio Calabria negli anni settanta), a Sbarre “la Repubblica”; passando per San Brunello e Gebbione, ma non trascuro la parte alta dove ricordo un tempo il famoso “Commando Ultras” del Fondo Versace oppure il quartiere Sant’Anna dove spesso ritrovavo molti dei Warriors. Mi avventuro anche a Saracinello, ed a Ravagnese e poi concludo il mio amaro tour cittadino su questo Lungomare, lascito del politico più lungimirante e “visionario” che la città abbia avuto nell’ultimo ventennio. Troppo presto è stato chiamato a dare il proprio contributo in un altrove, dove sicuramente, da qualche parte, garrisce un drappo amaranto.

Intimamente penso “non può finire così, non oggi, non dopo quei fantastici 138 giorni (dal 12 agosto 3-1-a Ferrara al 26 dicembre 1-0 ad Ascoli). Percorro trasognato questo “chilometro d’Italia” e ricordo con bruciante malinconia il tempo che fu, con le macchine ferme dai cui si diffondevano le cronache di Rino Tebala e Rocco Musolino che lentamente partita dopo partita ci condussero per mano fino allo spareggio di Perugia, e ad una serie B che a Reggio Calabria mancava da tanto, troppo tempo: dai tempi del ristorante Conti e dell’orologio Bulova, reclamizzate dallo speaker del vecchio Comunale, come il brandy Stock.
Ma quelle cronache continuarono a conduci ancora più su, allo spareggio di Pescara dove le lacrime di quei venticinquemila non andarono sprecate. Ma innaffiarono quell’alberello che a distanza di anni, comunque, diede i suoi frutti. E furono frutti di Seria A.

Foto tratta da Toro News
Oggi osservo questa mia città e ne percepisco la sorda rabbia, consapevole, oramai, che quel giorno su quel banchetto, con Felice Saladini, ci si stava imbarcando, tutti assieme, sul carro di Mangiafuoco destinazione il “Paese dei Balocchi”. E dopo la sbornia di quei famosi 138 giorni il risveglio non fu diverso da chi nel Paese dei balocchi ci fu davvero. Ed è stato un risveglio drammatico. Giusva Branca, qualche giorno fa, con un post grondante di doloroso rimpianto scriveva che “eravamo una macchina perfetta gioiosa e vincente. Ed ora è tutto finito”.
Mentre Fabrizio Condemi, non rassegnandosi alla serie D ed evocando le macerie su cui oggi ci tocca camminare, ammonisce che “accettare un’ingiustizia subita non è mai una virtù. Ma è il peggiore dei vizi su cui pasteggia il male”. Cercando ancora di scrollare i tanti che lentamente giorno per giorno stanno scivolando verso una sanguinosa rassegnazione.
Torno ancora verso il cuore della città, verso quel Castello Aragonese spesso luogo fantastico e imponente dei miei giochi di bimbo (essendo nato poche centinaia di metri distante). E percepisco che qui, in città, la voglia di resistere c’è ancora ancora, per poi tornare presto alla normalità. Di riaprire gli occhi e mettersi tutto alle spalle. Come dopo un brutto sogno. E magari guardare già alla prossima partita di Cremona, in Coppa Italia. Inimmaginabile una “resa”. Una Reggina in serie D.
Da lontano, spostati verso la via Aschenez (dal presunto fondatore della città o dalla cui discendenza si è popolata la città: Aschenas Greci Rheginos vocant) vedo due anziani che, con animo ferito, si traffiggono lanciandosi l’uno contro l’altro la loro verità sul fallimento amaranto. Dagli ampi gesti ne percepisco la rabbia per il tempo che a loro potrebbe mancare per rivedere ancora la Reggina nel paradiso del calcio. Ed una eco, da quel piccolo crocchio lontano mi giunge: Lillo Foti. Un ricordo da custodire nel tempo, un feticcio, o forse solamente icona di una pagina di storia che Reggio e la Reggina hanno finito di scrivere più di un decennio fa.
Mi allontano sorridendo, mentre i due anziani adesso non urlano più. Ma sapendo anche che quel calcio, quello del Presidente Foti, è un calcio che non esiste più. Come non esistono più i suoi protagonisti di allora, da Adriano Galliani, a Massimo Moratti allo stesso Luciano Moggi, troppo sbrigativamente “bruciato in piazza come il male assoluto per il calcio italiano”.

Foto tratta da Giornale di Calabria
Ecco, di tutto questo deve rispondere Patron Saladini, questi sono i danni che la sua impresa o se vuole la sua scommessa ha provocato nella mia città. E questo fastidioso silenzio, comunque vada a finire, ignora e ferisce i sentimenti di chi forse troppo frettolosamente (tra cui il sottoscritto) aveva creduto ai suoi disegni. Per quanto azzardati. Oggi scopriamo che erano arabeschi immaginari. Ghirigori che, ad oggi, stanno condannando Reggio e la Reggina all’oblio.
Fabrizio De Andrè cantava che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. E nel letame, apparentemente, oggi la Reggina è immersa fino al collo. Speriamo che allora saranno fiori bellissimi quelli che nasceranno. E li porteremo tutti assieme, lassù all’Eremo, il prossimo 9 settembre. Statene certi.

di Giuseppe “Fossa” Criaco






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